Ecco, ci risiamo. Il prologo in stile "Citizen Kane" mi sprofonda immediatamente nel disagio di un Cristiano Godano privato dell’intera discografia di Leonard Cohen. Un cosa è certa: qui l’unico uomo solo è Gianni Morandi. E non certo al comando. Gianni è un mediocre dal cachet milionario, come ce ne sono tanti in Rai, ma con l'aggravante di quel modo fare da curato di campagna che incita i ragazzini della parrocchia al torneo di calcetto, irritante quanto una mutanda in mezzo al culo. Non si capisce se ci è o ci fa, ma, nel dubbio, tutto ciò che dice, ed il modo in cui lo dice, suscita pena e fastidio. Per questo, devo ammetterlo, l'unica cosa che mi suscita una certa empatia è la geniale leggenda metropolitana della sua coprofagia. Ma non siamo qui per parlare di merda, o meglio, non della merda che mangia Morandi, ma di quella che Morandi ci farà mangiare a noi. Quindi, armiamoci di pazienza e mentine e si cominci la gara.
Dolcenera – Ci vediamo a casa: tralasciando l'evidente conflitto tra le due personalità di milf e bimbominkia che si combattono in lei, Dolcenera torna sul palco dell'Ariston con una canzone sulla precarietà dei giovani (tema caldo in questa edizione). Vorrei, lo giuro, vorrei tanto concentrarmi sulla canzone, ma la rima monolocale/cattedrale spegne ogni mio entusiamo dopo soli 20 secondi dall'inizio del pezzo.
Samuele Bersani – Un pallone: abito d’altri tempi, occhialoni, base minimale, Bersani porta sul palco la perfetta sintesi tra Tricarico, assente in quest'edizione, ed Arisa, un po’ come uno shampoo/balsamo 2 in 1, ma certamente con meno efficacia. Il pezzo è coerente con l'ultima produzione del cantautore: una noia ciclopica. E piena di pretenziosità: si parla di quest'Italia che va a rotoli attraverso la metafora di un pallone bucato. Se poi aggiungiamo le stecche sparse a piene mani, dovute, pare, a problemi alla gola, beh, oltre alla noia mi assale anche la malinconia per Chicco e spillo. Ma nonostante il pallone sgonfio, la vittoria del premio della critica gli è già stata assegnata a tavolino.
Noemi – Sono solo parole: fresca di dichiarazioni memorabili, come quella secondo la quale Rihanna le avrebbe copiato i capelli rosso Ronald McDonald, ecco comparire sul palco Claudio Brachino in arte Noemi. il brano glielo ha scritto il famigerato Fabrizio Moro, quello dell'orrida "pensa prima di sparare pensa", che autoplagia il suo pezzo Eppure mi hai cambiato la vita, con il quale gareggiò a Sanremo nel 2008. Il brano parla degli alti e bassi della vita di coppia e Noemi ce la mette davvero tutta per non farmi assopire, strepita, tira fuori tutto il Joe Cocker che c'è in lei, ripete ossessivamente che "sono solo parole". Appunto. Fiumi di parole, che prima o poi ti portano via, come dicevano i sommi Jalisse.
Francesco Renga – La tua bellezza: la sconfinata vacuità dei pezzi di Renga è sempre direttamente proporzionale alla sue quotazioni per la vittoria, non c’è niente da fare. E va detto che, a parte un'iniziale imprecisione nella voce, quella di Renga è uan delle pochissime performance canore sopra sopra la sufficienza. Ma poi a me che mi frega di Renga, c’è quel pelosone di Peppe Vessicchio a dirigere, l'unico vero motivo per cui guardo il festival!
Chiara Civello – Al posto del mondo: dopo Amalia Grè e la Nicolai, ecco a voi Chiara Civello, ennesima interprete jazz famosa (ma poi sarebbe interessante capire quanto) negli Stati Uniti ma sconosciuta nella buzzurra Italia dove la musica di un certo tipo nessuno se l'incula. A parte il fatto che questo è tutto da dimostrare, se le interpreti sono del livello della Civello ben venga la fuga di cervelli. La voce è piuttosto anonima e le imprecisioni sono parecchie. Ah beh certo, c'è grande protagonismo della fisarmonica, che fa tanto Astor Piazzolla very internescional, ma fondamentalmente il pezzo sembra uscito dal repertorio degli odierni Matia Bazar, se non fosse che Silvia Mezzanotte alla Civello ci piscia in testa.
Irene Fornaciari – Il mio grande mistero: mi rifiuto di commentare un brano con un'intro strumentale degna dei pezzi di Cher del periodo dance di "Believe", tanto capire cosa dica è impossibile, problema che avevo già avuto nel 2010. Mi viene in aiuto la pagina 777 di Tv Sorrisi & Canzoni, ma dopo la strofa "lune a dondolo, io ne ho cavalcate su strade proibite" sento di poter dare alla Fornaciari un saggio consiglio: Irene, tornatene a fare rustichelle all'autogrill di Modena sud.
Evito con immenso piacere di parlare di Celentano e non certo per pigrizia o presa di posizione, ma semplicemente perché ho avuto modo di vederlo interamente. Momento molto alto quello in cui Papaleo misura l'altezza di Pupo, inspiegabilmente coinvolto nel siparietto/citazione di Joan Lui. Poi Celentano ha cominciato a parlare bene di Gesù e male di Famiglia Cristiana ed io ho preferito togliere il volume al televisore ed invocare la bestia nera Loredana Bertè.
Emma Marrone – Non è l’inferno: già meriterebbe a lapidazione per essersi fatta scrivere il brano da uno che si chiama Kekko dei Modà. E che brano poi. Un'accozzaglia di parole in salsa di denuncia sociale sulla precarietà di questi tempi espressa in rime dirompenti come "ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese". Emma Marrone, pensandoci bene, è un po' una Gerardina Trovato dei poveri, e non che già la Trovato fosse Joan Baez... Il disagio che mi mette addosso un brano come questo è inquantificabile, quanto la voglia di vedere Emma e Kekko a chiedere l'elemosina fino alla fine dei loro giorni.
Marlene Kuntz – Canzone per un figlio: il cristianogodanesimo dovrebbe essere di diritto uno stato d'animo. Un misto di noia e voglia di morire.
Eugenio Finardi – E tu lo chiami Dio: mentre tu chiami Dio io chiamo il prete che ti dia l'estrema unzione. Peccato, perché Finardi ha pur sempre alle spalle alcune delle canzoni più belle della musica italiana (Le ragazze di Osaka, tanto per dirne una) e vederlo agonizzare su di un brano a tema religioso, di cui non è nemmeno autore, e questo lontano dalle sue corde, mi mette addosso un gran desiderio di eutanasia.
Gigi D’Alessio e Loredana Berté – Respirare: inutile commentare il pezzo, dalle sorprendenti sonorità funk, secondo le anticipazioni sui giornali, ma più verosimilmente dall'orribile sapore anni 80, gli anni 80 italiani più squallidi, quelli delle compilation Mixage. L'unica cosa di davvero sorprendente è la somiglianza sempre più accentuata della Bertè con Richard Benson, tanto che, tra un urlo e l'altro non posso fare a meno di immaginare la comparsa in scena di un pollo morto da sacrificare a Satana. E anche se non pronuncia quel "vi dovete spaventare" che è il grido di battaglia richardbensiano, noi comunque ci spaventiamo ugualmente senza problemi. Quando non urla va pure peggio: parla. Riuscendo e a stonare anche così. C'è una sola certezza sul palco ed è che esiste qualcuno di più disturbato di Celentano.
Nina Zilli – Per sempre: canzone dalle sonorità retrò, as usual, ma decisamente più romantica rispetto al suo repertorio. Io la Zilli non riesco proprio a farmela piacere, non me ne vogliate. Ha un guardaroba da urlo, una insopportabile bellezza sofisticata, ed in più sbandiera il suo essere un casino alternativa, ma tirando le somme è fin troppo palese che sia l’unica a crederci davvero in questo festival. Non fraintendetemi, la cantautrice gioca benissimo le sue carte e il brano di piazzerà senza problemi nella tripletta vincente. Ma se tra Nina e Mina la differenza è una sola consonante, quella letterina è comunque un'abisso.
Pierdavide Carone e Lucio Dalla – Nanì: Nanì è, come Bocca di rosa, un puttanone che la da via come se non fosse sua, e lo fa esclusivamente per vocazione, i soldi non le interessano. Ma Pierdavide Carone non è certo De Andrè. Se poi aggiungiamo a questa lagna sul puttantour il pensiero che anche Dalla possa avere una vita sessuale, scusate ma vado un attimo a vomitare.
Arisa – La notte: dopo aver pensionato gli occhialoni passando così da roito a brutta chic, Arisa compie un ulteriore passo avanti, mettendo una seria ipoteca sulla sua vittoria: abbandona il repertorio oriettabertesco per un pezzo strappamutande, subdolo e dal facile ascolto, che narra di una donna dal cuore infranto che si crogiola nei ricordi e nei kleenex smoccicati mangiando cibi ipercalorici. Il brano è di una banalità sconcertante, ma nessuno ha mai messo in dubbio che questo non sia requisito fondamentale per vincere all'Ariston. E poi la sua interpretazione è semplicemente perfetta, senza una sola incertezza nella voce. Indubbiamente la migliore della serata.
Matia Bazar – Sei tu: riescono nella titanica impresa d'essere più demodè di un tailleur con le spalline. Neanche il ritorno di una brava interprete come Silvia Mezzanotte, con la quale Golzi e compagni vinsero il festival nel 2002, riesce a mascherare il triste presente dei Matia: l'essere una brutta cover band di loro stessi nei tempi d'oro.