Wednesday, February 13, 2013

Sanremo 2013: la prima serata.

Capisco che questo festival sarà divertente come un'afta sulla lingua non appena mi approprio della certezza del defenestramento del maestro "wannabe Sigur Ros" Marco Sabiu, sostituito dal più blasonato Mauro Pagani, qui in veste anche di direttore artistico, per sfamare il disperato bisogno di Fazio di dare in pasto all'ebete pubblico italiano la parvenza d'una kermesse tremendamente di sinistra dove la musica è protagonista assoluta.
Sarà, ma a me questa cosa delle canzoni consequenziali interprentate dai big in gara mi ricorda solo le emorroidi a grappolo: una tira l'altra ma non per questo sono una cosa piacevole.
Approfondisco, per chi non fosse informato, il nuovo regolamento, fruibile come un Enigma della Susy della Settimana Enigmistica: ogni interprete presenta due pezzi, uno di seguito all'altro. Sarà il voto congiunto di pubblico e sala stampa a decretare quale sarà il brano che proseguirà la gara nelle serate successive.
Ed esibisione dopo esibizione, capisco quanti fantasmi siano presenti nei cassetti degli autori italiani. Analizziamoli.

Marco Mengoni: la vera, sola, quota rosa del festival, soprattutto dopo dieci minuti in video della Littizzetto.  
Esordisce con L'essenziale .Compongono Francesco De Benedittis e Roberto Casalino, autore per Giusy Ferreri ed Emma Marrone, ma il pezzo è molto più dignitosamente simile ad uno scarto di Nek di una decina d'anni fa, posizionandosi nella rassicurante nicchia "orechiabile per menti semplici" e perfetto per permettere al Mengoni di sfrociare al meglio. 
Bellissimo è il secondo brano, scritto stavolta dalle blasonatissime quattro mani di Pacifico e Gianna Nannini, colpiti evidentemente da focomelia temponaea , perché il verso "sarà bellissimo che l'alba si'llumina" ha una sintassi che mica mi quadra tanto.
Passa il turno L'essenziale.

Raphael Gualazzi: se una rondine non fa primavera, un diploma in pianoforte non fa Paolo Conte. Eppure Gualazzi ci crede un casino. E la critica anche. D'altra parte si impegna così tanto a sbattere le dita sulla tastiera che quasi dispiace accanirsi contro di lui e gli improbabili voli pindarici intrapresi in Senza ritegno, primo brano in gara.
Con il secondo pezzo, Sai (ci basta un sogno), Gualazzi si appropria di atmosfere più intime, romantiche e notturne, da crooner marpione in sovrappeso alla Bublè. Scelta che si rivela vincente. E mentre la sala stampa strepita, io stramazzo.

Daniele Silvestri: A bocca chiusa, il primo brano interpretato, appare come un delicato omaggio a Gabriella Ferri. Ad accompagnarlo un uomo che traduce il testo nella lingua dei gesti, perché rompere le barriere della disabilità è veramente un gesto molto di sinistra, pure più della somiglianza di Gualazzi con Matteo Renzi.
Con il secondo brano, Il bisogno di te, ecco comparire un Silvestri più canonino, con tanto di ostentata ripetizione del ritornello alla Salirò e strofe rocambolesche. Un pezzo che guadagna in facilità d'ascolto ma perde in originalità. Resta comunque tutt'ora disperso nella giungla boliviana il Silvestri della prima ora.
Passa il turno A bocca chiusa.

Simona Molinari e Peter Cincotti: in Dr. Jekyll and mr. Hide la penna del grande maestro Luttazzi si sente e non si può che gioirne, anche se la voce della Molinari incespica più di una volta . E l'apporto del jazzista americano Peter Cincotti si rivela utile come un'invasione di cavallette in un campo di granoturco. La formula si ripete anche nel secondo brano La felicità, swing dalle atmosfere carosoniane, premiato col passaggio al secondo turno. La Molinari ha talento, ma questa ostinazione nella scelta di modelli retrò la fa apparire poco più che un'intrattenitrice da night fuori tempo massimo.

Marta sui Tubi: due brani, Dispari e Vorrei, stesso pensiero: sembrano i Modà dopo cento repliche di concerti alla sagra della salama da sugo ferrarese. Sinceramente con i tubi di Marta mi ci farei il bidè e basta, ma in caso ve lo stiate chiedendo passa il turno Vorrei.

Maria Nazionale: l'orgoglio di Napoli, osannata in terra natia ma poco conosciuta al grande pubblico, interpreta un primo pezzo, Quando non parlo, scritto da Enzo Gragnaniello, che mescola le sonorità del fado portoghese a quelle più tipicamente mediterraneo/partenoee.
Con È colpa mia scritta invece da Servillo, la Nazionale si riappropria di una ballata neomelodica strappacore con testo in dialetto a lei più congeniale, che passa il turno. 
Musicalmente siamo fermi alle sceneggiate di Nino D'Angelo dei primi anni 80, ma chi siamo noi per non darle un 10 qualunque cosa canti, soprattutto tenendo conto che negli enormi plateau delle sue scarpe nasconde certamente l'intero il clan dei Casalesi.

Una bella menzion d'onore se la merita tutta Toto Cutugno, che porta in scena l'ossimoro musicale più ardito della storia sanremese: cantare L'italiano accompagnato dal coro dell'armata rossa, senza risparmiarci una sterile filippica su quanto in Russia sia considerato una superstar. Che Toto spopoli nelle sterminate steppe è cosa nota da tempo, d'altra parte ricordo che neanche tre anni fa comparì ai vertici della classifica sovietica un remix di Su di noi di Pupo, tanto per farvi capire quanto ne sappiano di bel canto in quel paese.
Ci metto pochi secondi a formulare l'ipotesi che tutto sia un minaccioso piano ordito dal poliedrico Vladimir Putin per ricordare all'Italia intera come ci tenga per le palle con la storia della fornitura del gas. Gas che, effettivamente, mai come in questo momento mi appare una risorsa tanto fondamentale. Per potermici soffocare, ovviamente.

Chiara Galiazzo: uno Zampaglione depresso scrive per la vincitrice dell'ultima edizione di X-Factor L'esperienza dell'amore, ballade strappamutande che puzza di polvere e podio, a sorpresa battuta da Il futuro che sarà, composta da Francesco Bianconi, leader dei Baustelle, una milonga che più che essere pretenziosa (cosa certamente ambita dal Bianconi) fa tanto Matia Bazar, seppur con qualche originalità nel testo ma poco adatta a vocalità e personalità della ragazza.

Arrivo con fatica all'ultima esibizione. Talmente a fatica da ritovarmi a confidare in una massiccia conversione dei big in gara alla religione ebraica, per fare in modo che tutti si appellino come Raiz al diritto di onorare lo shabbat, rifiutandosi di esibirsi il sabato.
Col cuore gonfio di nostalgia nel ricordare quali meraviglie esplosive avrebbe potuto fare Unabomber con i tubi di Marta.